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Le molte cose che ancora non sappiamo sul DNA

A quasi 70 anni dalla scoperta della struttura a doppia elica, abbiamo ancora molto da imparare sulla molecola dell’ereditarietà. Ecco i maggiori interrogativi sui quali gli scienziati stanno ancora indagando.

DNA è una sigla, un acronimo, che è ormai da anni di uso comune. Sta per acido desossiribonucleico, un nome lungo e un po’ difficile che ci dice che la molecola è un composto organico della famiglia degli acidi nucleici. Si trova nelle cellule di tutti gli esseri viventi; negli esseri umani, come in tutti gli organismi eucarioti, il DNA si trova nel nucleo, condensato nei cromosomi. Al suo interno sono custodite le informazioni che determinano le nostre caratteristiche, come alcuni aspetti della costituzione fisica, la carnagione, la tendenza a sviluppare alcune malattie e molto altro. Riceviamo il DNA dai nostri genitori biologici, ciascuno dei quali ce ne fornisce metà, e questa trasmissione è ciò che determina l’ereditarietà di molti caratteri. Il DNA è forse la molecola più studiata e conosciuta in biologia e medicina. Eppure, man mano che gli studi sulla genetica progrediscono, emergono aspetti inattesi nella struttura e nel funzionamento di questa molecola che svelano panorami ancora ignoti, dei quali stiamo appena cominciando ad apprezzare le novità.

DNA, geni e mutazioni, in sintesi

La molecola di DNA è composta da due filamenti avvolti l’uno con l’altro in una struttura, di due miliardesimi di millimetro di larghezza, che può ricordare una doppia elica o anche una scala a chiocciola. All’esterno di questa struttura si trova un’impalcatura formata da uno zucchero, il desossiribosio, e un gruppo fosfato, cioè un gruppo di atomi contenente acido fosforico. All’interno si trovano coppie di composti detti basi azotate. Il DNA contiene quattro basi azotate: adenina, guanina, timina e citosina, che si appaiano tra loro secondo regole ben precise: l’adenina solo con la timina, e la guanina solo con la citosina.

L’ordine, o sequenza, con cui le basi sono disposte nel DNA è al cuore dell’informazione genetica necessaria a fabbricare, mantenere e riprodurre ogni organismo vivente. Le informazioni contenute nei geni, tramite le sequenze di basi azotate, vengono “lette” e trascritte in un altro acido nucleico, l’RNA (acido ribonucleico) e tradotte in proteine, all’interno di organuli chiamati ribosomi. Diversamente dal DNA, che è pura informazione, le proteine sono le parti operative dell’organismo: formano la struttura di cellule e tessuti, trasportano ossigeno e nutrienti, regolano le reazioni chimiche all’interno dell’organismo, e via discorrendo.

Sequenze di DNA che codificano per una determinata proteina, legata a una funzione o a una caratteristica fisica specifica, sono chiamate geni. A volte la sequenza di un gene può modificarsi in modo casuale, a causa di errori che avvengono durante la divisione cellulare, o per esposizione ad agenti esterni (sostanze chimiche, radiazioni ionizzanti ecc.): si parla allora di mutazioni. Le mutazioni sono all’origine della variabilità genetica di una specie e possono portare alla comparsa di nuovi caratteri, ma possono anche essere dannose o letali.

Per esempio, i geni BRCA1 e BRCA2 codificano per la produzione di proteine che sono coinvolte nella riparazione del DNA. Mutazioni nel DNA di questi geni aumentano il rischio di sviluppare tumori maligni al seno e all’ovaio.

Espressione dei geni ed epigenetica, in sintesi

La relazione tra geni e caratteristiche dell’organismo è più complessa di quanto si credeva un tempo, quando poteva sembrare che a un gene corrispondesse sempre e solo un tratto specifico. Oggi sappiamo che organismi con il medesimo DNA, come i gemelli identici, possono avere caratteristiche fisiche diverse, questo perché anche se i geni sono gli stessi, non si esprimono sempre allo stesso modo. La disciplina che da circa vent’anni studia i cambiamenti dell’espressione genica che non sono dovuti a mutazioni nella sequenza del DNA prende il nome di epigenetica. I cambiamenti epigenetici sono indotti anche dall’interazione tra l’individuo e l’ambiente: i fattori ambientali sono in grado cioè di modificare l’attività dei geni senza cambiare l’informazione che codificano. Queste modifiche durano per tutta la vita della cellula e possono anche essere ereditate dalle generazioni successive.

Meccanismi epigenetici abbastanza comuni coinvolgono particolari gruppi chimici, come il gruppo metile, che può essere aggiunto alla molecola del DNA, bloccando così la trascrizione di alcuni geni. Si parla in tal caso di metilazione del DNA, un processo coinvolto anche nella predisposizione a sviluppare malattie tumorali e cardiovascolari, nell’invecchiamento cellulare e nei meccanismi neurologici alla base della memoria e dell’apprendimento.

L’epigenetica è un campo di ricerca che ha creato grandi aspettative per la medicina, anche se gran parte dei meccanismi che regolano l’espressione genica sono compresi finora parzialmente. Quel che sappiamo è che la maggioranza dei tratti di un organismo sono determinati da una complessa rete di interazioni tra i geni e fattori di regolazione, tra cui quelli epigenetici.

Il DNA non codificante, in sintesi

Esiste una parte significativa del DNA che non viene tradotta in proteine. La frazione di questo DNA non codificante varia molto da specie a specie, e non è semplice determinarla con precisione, ma le stime più recenti indicano che negli esseri umani sia oltre il 98 per cento del totale.

Inizialmente si pensava che non avesse alcuna funzione, tanto che fino alla fine del secolo scorso era chiamato comunemente DNA spazzatura. Nel tempo si è osservato che mutazioni nel cosiddetto DNA spazzatura possono causare gravi disfunzioni e favorire l’insorgenza di malattie. È stato anche notato che alcune sequenze di DNA non codificante si sono conservate per centinaia di milioni di anni, e anche per questo si è iniziato a pensare che il ruolo biologico di queste sequenze di DNA possa essere rilevante. Lo studio della funzionalità del DNA non codificante è il principale obiettivo di un progetto internazionale, Encode (che sta per Encyclopedia of DNA Elements), lanciato nel 2003. I risultati preliminari indicano che fino all’80 per cento del nostro DNA è coinvolto in attività rilevanti dal punto di vista biomedico, anche se la percentuale è stata messa in discussione e a tutt’oggi non c’è un consenso su quanto DNA non codificante abbia un’effettiva funzione biologica.

Una porzione del DNA non codificante ha funzioni strutturali, per esempio nei centromeri, le parti che tengono attaccate le due sub-unità da cui è formato un cromosoma. I telomeri invece sono sequenze ripetute di DNA non codificante che si trovano alle estremità dei cromosomi e li proteggono dal deterioramento che può verificarsi ogni volta che una cellula duplica il proprio patrimonio genetico in vista della divisione in due cellule figlie. Altre sequenze poste tra un gene e l’altro contribuiscono a controllare e regolare l’espressione genica in una varietà di modi, sopprimendo o favorendo la trascrizione di determinati geni e quindi la produzione delle relative proteine, oppure silenziando del tutto un gene; l’identità di queste sequenze e la loro modalità di azione sono tuttora oggetto di studio.

Circa un quarto del DNA non codificante si trova in sequenze poste all’interno dei geni dette introni, che vengono eliminate dall’RNA durante la trascrizione. Ciò fa sì che un gene sia costituito da parti, gli esoni, separate dagli introni, che possono essere trascritte in combinazioni nel RNA e per questo dare luogo a versioni diverse della stessa proteina, per esempio in cellule diverse o in momenti diversi della vita di una cellula. Parte delle sequenze che regolano l’espressione genica si trovano presumibilmente negli introni, e mutazioni nel DNA degli introni sono state messe in relazione con decine di malattie congenite, tra cui alcune forme di distrofia muscolare e di fibrosi cistica e diverse sindromi tumorali come la neurofibromatosi e il retinoblastoma.

A oggi non si conosce né la funzione, né l’origine della maggior parte del DNA non codificante. Per esempio, esistono sequenze dette pseudogeni la cui struttura ricorda da vicino quella dei geni, ma che non sembrano avere alcuna funzione nota e dei quali non si conosce la provenienza.

Le tracce di materiale genetico virale nel DNA umano, in sintesi

Circa l’8 per cento del nostro DNA è di origine virale, ed è possibile che regioni ancora non sufficientemente studiate di DNA non codificante, come gli pseudogeni, ne contengano ancora di più.

La maggior parte di questo DNA viene da un’ampia famiglia di virus chiamati retrovirus, tra i quali è compreso l’HIV responsabile dell’AIDS. Il materiale genetico dei retrovirus è composto da una molecola di RNA. Quando uno di questi virus penetra in una cellula ospite, converte il proprio RNA in DNA integrandolo nel DNA della cellula infetta. La cellula “legge” questo DNA come se fosse il proprio, dando il via alla produzione delle proteine virali necessarie alla creazione di altre copie del virus che andranno poi a infettare nuove cellule.

Oggi sappiamo che le sequenze di DNA virale integrate nelle nostre cellule germinali entrano, per così dire, nell’asse ereditario. Spesso queste sequenze sono molto antiche, hanno subito mutazioni e hanno perso la funzione originaria, necessaria alla moltiplicazione dei virus. Parte di questi residui potrebbe essere responsabile di una maggior predisposizione a certi tumori, mentre alcuni pezzi di antico DNA virale sono stati, per così dire, “addomesticati” e riutilizzati per produrre proteine di cui abbiamo bisogno. In altri casi ancora, potrebbero aver assunto un ruolo determinante nel regolare la nostra risposta immunitaria. Ma la ricerca è solo agli inizi: le funzionalità del DNA di origine virale, così come i meccanismi che determinano quali sequenze sono attivate e quali no, sono ancora in buona parte da esplorare.

Silvia Kuna Ballero

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